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martedì 25 ottobre 2016

Lady Nemat



Mi chiamo Arthur Winster e sono nato a Ecclerigg sul lago di Windermere nel 1829. Mio padre era uno stimato commerciante d’arte come oggi lo è il sottoscritto, e mio nonno un affermato archeologo di Londra. Gli scavi nella valle dei Re in Egitto lo resero famoso in tutto il mondo.
Il nonno morì quando avevo circa dieci anni. Conservo tutt’oggi gelosamente un oggetto che lo rappresenta e che mi fu consegnato all’età di diciotto anni: un amuleto, uno scarabeo egizio dorato dal valore inestimabile. Il sacro animale che dona la vita.
 
Questa mia introduzione vi servirà per comprendere meglio il resoconto di quanto accaduto esattamente vent’anni dopo quel mio compleanno.
Ricevetti una lettera da una certa lady Nemat Shafik di Low Wray. Sembrava un’interessante proposta di lavoro. Lady Nemat mi chiedeva espressamente di occuparmi della vendita di tutte le opere d’arte in suo possesso.
Un incontro, a mezzanotte e mezza di quello stesso giorno, era la sua strana richiesta.
Mi presentai all’appuntamento, il governante mi aprì e senza proferir parola mi fece accomodare nel salone. “Lord Winster vi prego di attendere qui” disse. Prese il suo candelabro e se ne andò.
Nell’attesa raccolsi un candeliere che era stato appoggiato su una servante vittoriana poco distante e mi diressi in prossimità di un quadro di cui mi pareva riconoscere l’autore; uno dei più stimati artisti inglesi del nostro secolo, morto sedici anni prima: Joseph Turner.
 
“La peste, lord Winster, una delle cinque piaghe d’Egitto. Immagino voi conosciate Joseph Turner” disse lady Nemat giungendo alle mie spalle con un gatto nero tra le braccia.
Colto di sorpresa, risposi: “oh… mi avete spaventato lady Nemat, siete apparsa dal nulla e senza il minimo rumore. Quanta leggerezza vi sostiene”
“Leggerezza dite? Molta più di quella che voi ritenete lord Winster. Allora… non mi avete ancora risposto, rassicuratemi vi prego, ho fatto un buon affare a chiamare voi?”.
“Oh sì, senza dubbio “ risposi senza troppa convinzione “arte antica certo, ma amo anche scommettere su artisti più contemporanei e Turner è un investimento assicurato”.
“Mi rincuorate lord Winster… mi è costata molto quell’opera e mi duole privarmene, ma non ho altra scelta”.
“Capisco…” risposi senza aggiungere altro.
Non capivo, ma la mia professionalità mi consigliava di non fare troppe domande, e in quel momento sembravano essere evaporate con la fragranza che lei emanava in quella stanza. Le pareti mi apparivano bianche e vuote al cospetto dell’opera d’arte che lei mi rappresentava. Da ogni angolo la osservassi, quei tratti medio orientali sembravano dipinti sullo sfondo di quella stanza dai più grandi maestri del nostro tempo. Ero pieno d’ammirazione e avevo dimenticato anche il motivo per cui ero li.
“Parliamo d’affari” riprese Nemat riportandomi alla realtà “vorrei che vi occupaste della vendita dei miei oggetti d’arte”.
“Sì… avrei bisogno di alcuni giorni per catalogare ogni oggetto che andrà all’asta” le risposi.
“Vi lascerò le chiavi di casa lord Winstor, potete venire quando volete durante il giorno. Mi troverete qui solo dopo mezzanotte e mezza. Se avete bisogno di conferire con me, sapete a che ora potete trovarmi”, disse, poi aggiunse “un’ultima cosa, ed è la più importante, vedete quella cassa oblunga?” Era in fondo al salone, in una parte buia della stanza e indicandola continuò “ vorrei non la vendeste e soprattutto vi ordino di non aprirla mai. La cassa è incompleta”
“Incompleta? A guardarla non mi pare, è solo una cassa. Cosa gli manca?” Chiesi
“Un amuleto,”
“Amuleto, che tipo di amuleto?”
“Uno scarabeo dorato, il sacro animale che dona la vita”. Lo scarabeo del nonno, pensai.  Non le dissi nulla. Una coincidenza che, per non so quale motivo, mi faceva rabbrividire.
“Lo vede questo stemma? Da qui è stato sottratto molti anni fa, ma è mia intenzione ritrovarlo. Fino ad allora questa cassa non dovrà mai essere aperta”. Pronunciò, solenne, queste ultime parole e si congedò da me.
 
Il primo giorno avevo cominciato a catalogare le opere presenti nel salone. Durante il lavoro, però, non riuscivo a non guardare quella cassa in fondo alla stanza. Cosa c’era dentro, e perché un amuleto? Il fatto poi di avere io stesso un amuleto e forse proprio quello mancante m’incuriosiva. Nemat me ne parlò con una serietà che ritenevo eccessiva, considerato si trattasse solo di una cassa.  Come una questione di vita o di morte.  E se così fosse, mi chiesi, non era il caso che ne sapessi di più? E se io stesso fossi stato in pericolo?
Quel giorno rimasi fino a tarda sera, forse le undici, e poiché la mezzanotte non era poi così lontana, decisi di appartarmi in un angolo della stanza adiacente, dietro un barile di Amontillado, in un punto della casa dove avrei potuto tenere d’occhio l’intera stanza, lasciando la porta d’uscita socchiusa per togliere poi il disturbo senza farmi notare.
Accadde che a mezzanotte in punto, nel fondo del salone, vidi alzarsi il coperchio della cassa oblunga, e da essa uscire lady Nemat pallida come la morte.
Il cuore mi balzò in gola, il respiro si fece affannoso ma riuscii ad ogni modo a controllarmi e in tutta fretta uscii da quella casa terrorizzato.
Nonostante mi tremassero le gambe al solo pensiero di rientrare nella dimora di Nemat, decisi di affrontare il secondo giorno. Avevo intenzione ora di aprire la cassa oblunga e capire con quale essere avevo a che fare.
Ora, dopo ciò che avevo visto, mi appariva più come un sarcofago. Non senza timore, spostai lentamente il coperchio e un primo raggio di luce vi fece breccia illuminando un angolo del suo interno. Vi guardai dentro: niente che potesse somigliare a un corpo umano. Presi coraggio e l’apersi.
Un quadro, avvolto in una stoffa di raso bianco, vi era custodito. Spostai il raso per vedere cosa vi raffigurava e mi apparve un ritratto ovale di lady Nemat. Sorrisi della mia stupidità, come potevo pensare di trovarci un cadavere? Richiusi la cassa e, mentre i pensieri e le domande su quanto vidi si ammassavano nella mia mente cercando una via d’uscita, una spiegazione logica, mi rimisi al lavoro.
Il terzo giorno i cancelli della villa, con mia sorpresa, non si aprirono. La chiave che mi era stata data mi fu inservibile.  All’improvviso mi apparve il guardiano dall’altra parte del cancello, “Buongiorno Lord Winster, lady Nemat mi ha incaricato di dirvi che il vostro  lavoro è terminato qui, vi aspetta stanotte per saldarvi il conto”.
Mi aveva liquidato senza spiegazioni. Perché?
 
Quella notte mi attendeva nel centro della sala. Non appena entrai, voltandomi le spalle, disse con tono irritato: ”Perché l’avete fatto lord Winster? Io mi fidavo di voi, sono molto delusa!”
“Fatto cosa lady Nemat?”
“Crede che io non lo sappia, siete voi a non sapere niente di me lord Winster! avete disobbedito ai miei ordini, avete aperto la cassa quando vi era proibito!”.
Come faceva a saperlo? Mi domandai confuso. Rimasi in silenzio attendendo mi rimproverasse ancora com’era giusto che facesse, mentre il mio sguardo non poteva non notare la cassa aperta. Allungai il collo per guardarvi dentro e mi accorsi che il quadro non c’era. Le chiesi “Ma è vuota?”
“Vuota?” rispose Nemat “ E’ il quadro che cercate? Eccomi!” e si girò di scatto. Aveva il volto tumefatto, come bruciato dal sole. “Io sono quel quadro, e tutte le notti divento reale, farmi carne e vivere tra i vivi. Avete rischiato di uccidermi disobbedendo ai miei ordini! Solo un amuleto potrebbe liberarmi da questa maledizione: lo scarabeo dorato rubato nella valle dei Re più di mezzo secolo fa, quello che avete voi lord Winster! E’ ora che mi ridiate quello che mi appartiene, altrimenti…”.
A quel punto non riconoscevo neanche più le mie emozioni: terrore, commozione, incredulità, un susseguirsi di stati d’animo si aggrovigliavano nel mio corpo originando reazioni assurde in situazione assurda.
 “Ma..ma allora io appartengo a questo disegno da prima della mia nascita e voi sapevate tutto, per questo avete scelto me”. Furono le mie uniche parole, poi estrassi dalla tasca lo scarabeo del nonno che avevo deciso di portare con me quel giorno, e con mano tremante lo porsi a lei.
I suoi occhi brillarono, me lo strappò di mano e lo strinse forte, le ferite sul suo volto scomparvero rapidamente. Poi si avvicinò alla cassa e lo inserì nello stemma che vi era incastonato sopra il coperchio.
Le candele d’un tratto si spensero ma il buio attese che lady Nemat, dalla cui gola ora vomitava luce abbagliante, diventasse cenere per fare la sua comparsa.
Mi ritrovai a terra, nel buio più completo. Un odore d’incenso riempiva ora quel luogo. A tastoni raggiunsi la finestra, aprii le pesanti tende di velluto e il chiarore della luna piena illuminò la stanza. Rimasi sorpreso nell'accorgermi che non c’era nulla di ciò che vi avevo trovato al mio arrivo. Incredulo apersi le finestre di tutte le stanze che attraversavo correndo verso l’uscita, erano tutte vuote, non un solo mobilio non un solo quadro. Uscii nel cortile stordito, spaventato, infreddolito, passai il cancello dei giardini e quando mi voltai per richiuderlo alzai lo sguardo e mi accorsi che quella villa non c’era. Forse non era mai esistita.

domenica 23 ottobre 2016

Prima-vera

Altera puerili secrezioni
D’umore propizio
Prima vera luce
Che discioglie il buio
Che pervade propositi
Di profumi esilaranti
Che riconcilia moderazione
Intemperanza ed estenuazione
Approdo per meste imbarcazioni
Sopravvissute al frangente

Virus. Remake di "Aria Fredda" Lovecraft

Nell’autunno del 2008 trovai finalmente lavoro, mi ero da poco trasferito a Roma e dopo aver tempestato di curricula tutte le redazioni della città, trovai un posto come articolista presso un giornale minore. Lo stipendio non era dei migliori ma sufficiente per permettermi un affitto in uno dei sobborghi periferici della città. Trovai una casa dignitosa in Suburbio Tor di Quinto.
La padrona di casa, Carmela, era siciliana e viveva nell’appartamento al piano inferiore, una gentile vedova che non perdeva occasione di farmi visita rimpinzandomi di cannoli, lasagne e tutto ciò che le veniva in mente di preparare la mattina appena alzata. Anche dei vicini non potevo certo lamentarmi, erano cortesi e silenziosi, qualità quest’ultima che qui a Roma apprezzavo molto.  
In breve tempo conobbi tutti gli inquilini dello stabile tranne uno, Il dott. Mareschi che aveva casa giusto in faccia alla mia. Non usciva mai dal suo appartamento. Carmela mi aveva raccontato della sua malattia, di cui poco sapeva, e del fatto che rifiutasse ogni genere di aiuto medico, “Si cura da se” disse, “l’unico medico che gli fa visita una volta l’anno è il dottor Canua”.
Il perché il pianerottolo del mio appartamento fosse più freddo degli altri due che attraversavo salendo le scale, mi fu chiarito il 12 novembre. Uscii tardi quella mattina, e appena varcai la porta di casa incontrai Carmela, attendeva che il dott. Mareschi le aprisse la porta per consegnare la spesa che era solita fare il martedì. Commissioni che il dottore le dava per evitare di uscire e che Carmela faceva non senza un certo disappunto. Non perché non le piacesse rendersi utile, ma più per la paura e l’orrore che provava tutte le volte che si apriva quella porta. Si leggeva nei suoi occhi e quella mattina non mancò di ricambiare il mio sguardo con uno denso di paura. Non appena la porta si aprì, sentii immediatamente l’aria gelida che ne usciva, come quando si apre lo sportello di un congelatore. Una massa d’aria polare invase l’intero pianerottolo e il dott. Mareschi apparve alla porta e si accorse di me, mi salutò cortesemente e rientrò di corsa. Con la stessa fretta Carmela si dileguò.
Rimasi impietrito sul pianerottolo per alcuni minuti, la prima tentazione fu di fuggire dal freddo che si era riversato fuori dal suo appartamento abbassando ulteriormente la temperatura nelle scale. La curiosità di conoscere il dott. Mareschi e la sua strana malattia vinsero però sulle mie indecisioni, e bussai alla sua porta.
Da qualche giorno avevo un problema di respirazione, forse a causa del pulviscolo che una città come Roma può offrire insieme a tutte le sue bellezze, o magari era solo un’influenza passeggera. Sarei dovuto andare da un medico ma il lavoro e la commissioni mi occupavano gran parte della giornata rendendo al momento impossibile qualsiasi tipo di visita o prenotazione.
Il fatto che Mareschi fosse medico mi mise nella condizione di giustificare la mia invadenza con una richiesta di aiuto. In questo modo sarei penetrato forse in quella casa che ora, nell’attesa mi fosse aperta, e dal freddo che filtrava dallo spiffero sotto la porta che sentivo avvolgermi le caviglie, m’inquietava.
Era un uomo di mezza età, alto magro con due enormi baffi sotto un naso aquilino che gli donavano un’aria quasi ottocentesca. Anche il taglio di capelli era alquanto retrò. Vestiva leggero, nonostante il freddo in cui viveva.
Gli spiegai i motivi della mia visita ed egli non esitò a farmi entrare. La casa era ordinata e pulita, aveva tutta l’aria di un appartamento nobiliare; tappezzeria alle pareti, mobili antichi, quadri del settecento, ceramiche e tutto ciò che la rappresenta.
Mi portò nel suo studio e dopo una breve visita mi prescrisse una ricetta. Cercò in tutti modi di scusarsi per la bassa temperatura, dopo avermi visto tremare un paio di volte, e mi raccontò della sua malattia. Un Virus lo aveva colpito molti anni prima durante una ricerca in Congo, una malattia che richiedeva un preciso regime di cure, tra cui il freddo. Grazie alle sue continue sperimentazioni, aveva scoperto però il lato positivo di questo virus; con un’accurata preservazione e volontà si potevano allungare i tempi d’invecchiamento degli organi, e quindi forse la vita.
Aveva fatto montare nel suo appartamento uno di quelle “macchie moderne”, così le chiamava, si trattava di un enorme motore refrigerante capace di portare la temperatura fino a zero gradi.
Mareschi era uomo dalla grande cultura, lo si coglieva dalle misure e dai termini con cui si esprimeva, dall’aspetto ben curato e da antichi modi gentili che mi era quasi impossibile non notare. Eppure, con il passare dei minuti, il suo aspetto cominciava a crearmi ribrezzo e non ne capivo il motivo, ma nonostante tutto, ero disposto a tornare in quella casa, se non altro per dargli conforto ed essere utile nel caso servisse.
Nelle settimane seguenti tornai a trovarlo spesso, non senza essermi prima organizzato per combattere il freddo polare cui mai mi abituavo; mi comprai un giaccone più pesante e un paio di guanti che mi avrebbero protetto dalle sue gelide strette di mano.
L’incredibile avvenne però nel giro di pochi giorni.
Una mattina il refrigeratore si bloccò. Bussai a quella porta con l’intento di fargli visita, ma lui non mi aprì. Con voce alquanto strana, ma certamente sua, mi disse che avrebbe preferito non farmi entrare, e mi pregò di mandargli un tecnico per riparare “quella macchina moderna” che nella notte pareva avesse smesso di funzionare. Era una domenica mattina e trovare un tecnico mi sarebbe stato impossibile, glielo ricordai ma lui si alterò picchiando i pugni contro la porta e gridando, per quel che riusciva, che gli avrei dovuto cercare immediatamente qualcuno altrimenti sarebbe stata la fine.
Cosi mi affrettai a chiamare una decina di numeri che cercai frettolosamente sull’elenco telefonico, nulla da fare. Poi mi venne in mente un mio collega, sapevo che aveva un fratello che lavorava in una fabbrica di frigoriferi a Roma Tiburtina. Lo chiamai ma destino volle che Mareschi dovesse aspettare fino il lunedì, Il fratello del mio collega era fuori Roma con la moglie e non sarebbe potuto venire prima di lunedì mezzogiorno. 
Il giorno seguente il tecnico gli fece visita, lo vidi entrare nell’appartamento. Decisi di rimanere nel mio nell’attesa che avesse finito per poi fargli visita. Dopo pochi minuti però lo sentii urlare, uscire sbattendo la porta e correre giù per le scale. Mi affacciai immediatamente sul pianerottolo e subito dopo bussai più volte alla sua porta ma senza alcuna risposta. Capii che l’unica cosa da fare era entrare con la forza. Alla seconda spallata la porta si aprì. Una puzza disgustosa mi assalì, un odore di marcio, di carne putrefatta aleggiava in quella stanza. Mareschi non rispose alle mie chiamate, mi aggirai per la casa non senza il timore di quello che avrei potuto scoprire. 
 
Quello che vidi sul divano non posso qui ora descrivere, tenterò di illustrare qualcosa che in tutto l’immaginario umano non esiste. Una massa informe di fango e carne in decomposizione ribolliva sul sofà, sbuffate di gas eruttavano da quell’obbrobrio spargendo sul tappeto circostante schizzi di quella putrida e maleodorante melma che aveva imbrattato tutta la stanza. Una striscia a terra di quel pantano si dirigeva verso la cucina, mi tappai il naso e la seguii. Sul tavolo poggiava un foglio sporco di quell’immonda materia con scritto: Per il dott. Alberto Canua. Caro Alberto, è basato un guasto all’impianto di refrigerazione per mettere fine al virus e alla più grande scoperta dell’umanità. Come vedi non tutto è controllabile, tanto meno la vita la cui durata è decisa dalla casualità più che dall’invecchiamento di un corpo. Ad ogni modo, la scoperta di quel maggio del 1830 in Congo è stata la rivelazione più grande che potessi avere. Sono felice di averla condivisa con te.