La padrona di casa, Carmela,
era siciliana e viveva nell’appartamento al piano inferiore, una gentile vedova
che non perdeva occasione di farmi visita rimpinzandomi di cannoli, lasagne e
tutto ciò che le veniva in mente di preparare la mattina appena alzata. Anche
dei vicini non potevo certo lamentarmi, erano cortesi e silenziosi, qualità
quest’ultima che qui a Roma apprezzavo molto.
In breve tempo conobbi tutti
gli inquilini dello stabile tranne uno, Il dott. Mareschi che aveva casa giusto
in faccia alla mia. Non usciva mai dal suo appartamento. Carmela mi aveva
raccontato della sua malattia, di cui poco sapeva, e del fatto che rifiutasse
ogni genere di aiuto medico, “Si cura da se” disse, “l’unico medico che gli fa
visita una volta l’anno è il dottor Canua”.
Il perché il pianerottolo del
mio appartamento fosse più freddo degli altri due che attraversavo salendo le
scale, mi fu chiarito il 12 novembre. Uscii tardi quella mattina, e appena
varcai la porta di casa incontrai Carmela, attendeva che il dott. Mareschi le
aprisse la porta per consegnare la spesa che era solita fare il martedì.
Commissioni che il dottore le dava per evitare di uscire e che Carmela faceva
non senza un certo disappunto. Non perché non le piacesse rendersi utile, ma
più per la paura e l’orrore che provava tutte le volte che si apriva quella
porta. Si leggeva nei suoi occhi e quella mattina non mancò di ricambiare il
mio sguardo con uno denso di paura. Non appena la porta si aprì, sentii
immediatamente l’aria gelida che ne usciva, come quando si apre lo sportello di
un congelatore. Una massa d’aria polare invase l’intero pianerottolo e il dott.
Mareschi apparve alla porta e si accorse di me, mi salutò cortesemente e
rientrò di corsa. Con la stessa fretta Carmela si dileguò.
Rimasi impietrito sul
pianerottolo per alcuni minuti, la prima tentazione fu di fuggire dal freddo
che si era riversato fuori dal suo appartamento abbassando ulteriormente la
temperatura nelle scale. La curiosità di conoscere il dott. Mareschi e la
sua strana malattia vinsero però sulle mie indecisioni, e bussai alla sua porta.
Da qualche giorno avevo un
problema di respirazione, forse a causa del pulviscolo che una città come Roma
può offrire insieme a tutte le sue bellezze, o magari era solo un’influenza
passeggera. Sarei dovuto andare da un medico ma il lavoro e la commissioni mi
occupavano gran parte della giornata rendendo al momento impossibile qualsiasi
tipo di visita o prenotazione.
Il fatto che Mareschi fosse medico mi mise nella condizione di giustificare la
mia invadenza con una richiesta di aiuto. In questo modo sarei penetrato forse
in quella casa che ora, nell’attesa mi fosse aperta, e dal freddo che filtrava
dallo spiffero sotto la porta che sentivo avvolgermi le caviglie, m’inquietava.
Era un uomo di mezza
età, alto magro con due enormi baffi sotto un naso aquilino che gli donavano un’aria
quasi ottocentesca. Anche il taglio di capelli era alquanto retrò. Vestiva
leggero, nonostante il freddo in cui viveva.
Gli spiegai i motivi della mia
visita ed egli non esitò a farmi entrare. La casa era ordinata e pulita, aveva
tutta l’aria di un appartamento nobiliare; tappezzeria alle pareti, mobili
antichi, quadri del settecento, ceramiche e tutto ciò che la rappresenta.
Mi portò nel suo studio e dopo
una breve visita mi prescrisse una ricetta. Cercò in tutti modi di scusarsi per
la bassa temperatura, dopo avermi visto tremare un paio di volte, e mi raccontò
della sua malattia. Un Virus lo aveva colpito molti anni prima durante una
ricerca in Congo, una malattia che richiedeva un preciso regime di cure, tra
cui il freddo. Grazie alle sue continue sperimentazioni, aveva scoperto però il
lato positivo di questo virus; con un’accurata preservazione e volontà si
potevano allungare i tempi d’invecchiamento degli organi, e quindi forse la
vita.
Aveva fatto montare nel suo
appartamento uno di quelle “macchie moderne”, così le chiamava, si trattava di
un enorme motore refrigerante capace di portare la temperatura fino a zero
gradi.
Mareschi era uomo dalla grande
cultura, lo si coglieva dalle misure e dai termini con cui si esprimeva, dall’aspetto
ben curato e da antichi modi gentili che mi era quasi impossibile non notare.
Eppure, con il passare dei minuti, il suo aspetto cominciava a crearmi ribrezzo
e non ne capivo il motivo, ma nonostante tutto, ero disposto a tornare in
quella casa, se non altro per dargli conforto ed essere utile nel caso
servisse.
Nelle settimane seguenti
tornai a trovarlo spesso, non senza essermi prima organizzato per combattere il
freddo polare cui mai mi abituavo; mi comprai un giaccone più pesante e un paio
di guanti che mi avrebbero protetto dalle sue gelide strette di mano.
L’incredibile avvenne però nel
giro di pochi giorni.
Una mattina il refrigeratore
si bloccò. Bussai a quella porta con l’intento di fargli visita, ma lui non mi
aprì. Con voce alquanto strana, ma certamente sua, mi disse che avrebbe
preferito non farmi entrare, e mi pregò di mandargli un tecnico per riparare
“quella macchina moderna” che nella notte pareva avesse smesso di funzionare.
Era una domenica mattina e trovare un tecnico mi sarebbe stato impossibile,
glielo ricordai ma lui si alterò picchiando i pugni contro la porta e gridando,
per quel che riusciva, che gli avrei dovuto cercare immediatamente qualcuno
altrimenti sarebbe stata la fine.
Cosi mi affrettai a chiamare
una decina di numeri che cercai frettolosamente sull’elenco telefonico, nulla
da fare. Poi mi venne in mente un mio collega, sapevo che aveva un fratello che
lavorava in una fabbrica di frigoriferi a Roma Tiburtina. Lo chiamai ma destino
volle che Mareschi dovesse aspettare fino il lunedì, Il fratello del mio
collega era fuori Roma con la moglie e non sarebbe potuto venire prima di
lunedì mezzogiorno.
Il giorno seguente il tecnico
gli fece visita, lo vidi entrare nell’appartamento. Decisi di rimanere nel mio
nell’attesa che avesse finito per poi fargli visita. Dopo pochi minuti però lo
sentii urlare, uscire sbattendo la porta e correre giù per le scale. Mi
affacciai immediatamente sul pianerottolo e subito dopo bussai più volte alla
sua porta ma senza alcuna risposta. Capii che l’unica cosa da fare era entrare
con la forza. Alla seconda spallata la porta si aprì. Una puzza disgustosa mi
assalì, un odore di marcio, di carne putrefatta aleggiava in quella stanza.
Mareschi non rispose alle mie chiamate, mi aggirai per la casa non senza il
timore di quello che avrei potuto scoprire.
Quello che vidi sul divano non
posso qui ora descrivere, tenterò di illustrare qualcosa che in tutto
l’immaginario umano non esiste. Una massa informe di fango e carne in
decomposizione ribolliva sul sofà, sbuffate di gas eruttavano da quell’obbrobrio
spargendo sul tappeto circostante schizzi di quella putrida e maleodorante
melma che aveva imbrattato tutta la stanza. Una striscia a terra di quel
pantano si dirigeva verso la cucina, mi tappai il naso e la seguii. Sul tavolo
poggiava un foglio sporco di quell’immonda materia con scritto: Per il dott. Alberto Canua. Caro Alberto, è
basato un guasto all’impianto di refrigerazione per mettere fine al virus e
alla più grande scoperta dell’umanità. Come vedi non tutto è controllabile,
tanto meno la vita la cui durata è decisa dalla casualità più che
dall’invecchiamento di un corpo. Ad ogni modo, la scoperta di quel maggio del
1830 in Congo è stata la rivelazione più grande che potessi avere. Sono felice
di averla condivisa con te.
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