La festa è finita. Rintoccano le campane della chiesa in riva al lago, sembrano celebrare
il ricordo della mia bianca preghiera mai prima d’allora recitata.
Dai piedi di quel campanile scoccai stupidamente una freccia colpendo un albero dai rossi frutti che vidi appassire rapidamente quando, per timore, l’uccello d’oro posatovi sopra fuggì via e con esso il mio alimento. Non per il corpo tale nutrimento, tanto meno per la mente la quale, tuttavia, ne ricorda l’aspetto e il gusto anche.
La freccia si spezzò ed io spaccai quel maledetto arco che, per lungo tempo, portai a tracolla attendendo paziente di sottendere la sua corda.
Dai piedi di quel campanile scoccai stupidamente una freccia colpendo un albero dai rossi frutti che vidi appassire rapidamente quando, per timore, l’uccello d’oro posatovi sopra fuggì via e con esso il mio alimento. Non per il corpo tale nutrimento, tanto meno per la mente la quale, tuttavia, ne ricorda l’aspetto e il gusto anche.
La freccia si spezzò ed io spaccai quel maledetto arco che, per lungo tempo, portai a tracolla attendendo paziente di sottendere la sua corda.
L’arciere si nutre ora solo di se stesso. Un
foglio bianco il suo poligono. L’ebbrezza che vi trova nel tirare parole sopperisce
a quella perdita. Egli dissemina larve quando nel cielo gli uccelli fuggono, quando
le nubi si fanno grigie e il vento spinge forte. Sottende la sua delirante
visione di quella bianca preghiera su di un foglio dello stesso
colore in ricordo a ciò che fu: l’arciere sprovveduto.
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